sabato 8 marzo 2014

Rafè e Micropiede



Il posto dove si sta meglio.  
Giovanni Arpino, sempre lui. Ha scritto molto e anche qualche libro per ragazzi. E proprio oggi avrei dovuto presentare presso la Biblioteca di Menaggio, sul mio Lago, il progetto “Nati per leggere”.
Dovrei dare qualche consiglio ai genitori per iniziare i loro figli alla lettura; di un libro, del libro.
In famiglia c’era uno zio, lo zio Mario, che in realtà era un prozio, un fratello del nonno Federico che non ho mai conosciuto. 
Io non ho conosciuto nonni, solo una nonna, simpatica, un po’  bisbetica, grande consumatrice di farmaci perchè sempre malata e infatti scomparsa a 92 anni. 
Questo zio Mario si vedeva quasi solo a Natale e ogni volta e invariabilmente il suo regalo era un libro.
Non era mai un libro casuale. Così sono arrivati “Cuore” di De Amicis, “Il libro di Tonino” di Fabio Tombari ma il re di tutti i suoi libri è stato “Rafè e Micropiede” di Giovanni Arpino.
Rafè era un ragazzino e Micropiede una tarataruga elettica che lo seguiva; dava saggi consigli e lo toglieva dai guai.
Una storia già sentita e già scritta ma riproposta per un bambino come me, cresciuto in mezzo ai libri in un’Italia senza televisione che traghettava dal “miracolo economico”alla “guerra fredda” un dopoguerra pieno di speranze e contraddizioni.
Rafè era partito da casa alla ricerca del “posto dove si sta meglio”.
Inutile dire che poi era tornato a casa dopo mille peripezie e cento riflessioni, sempre accompagnato da quella misteriosa tartaruga elettrica che assomigliava a un aggeggio scomparso da decenni dalle nostre case: lo stabilizzatore.
In casa non c’era il televisore; mio padre, prima di divenirne assuefatto, l’aveva combatturo strenuamente, fino al 1961, centenario dell’Unità, quella d’Italia, non il lugubre giornale di partito.
Nelle case degli amici dove era già arrivata sotto al mastodonte catodico di legno lucidato e laccato, ronzava un parallelepipedo di lamiera da cui occhieggiava una spia rossa.
Era il temibile stabilizzatore di tensione che proteggeva triodi e pentodi ronzanti dagli sbalzi di tensione che comunque un giorno o l’altro li avrebbero fritti o arrostiti inesorabilmente.
Infatti a volte l’odore sinistro di morte elettrica si sprigionava dalla radio troneggiante o dal televisore orbati del verde smeraldino dell’occhio magico.
Le stagioni si susseguivano nell’odore dei fuochi di legna, dei fumi nerastri dei primi bruciatori a nafta, e in quelli puzzolenti delle caldaie a carbone. 
L’accensione della caldaia di carbone incautamente lasciata spegnere era un innesco laborioso da cui la nonna emergeva livida di rabbia e nera di caligine, imprecando in toscano, perchè quando ci incazziamo torniamo alla lingua natìa. 
In realtà quello delle caldaie a carbone era un profumo.
Il profumo del treno, il profumo del mare, il profumo del viaggio in Liguria, il profumo che precedeva l’aria del mare. 
Dicono che di tutti i sensi l’olfatto sia il meno sviluppato nell’essere umano e che la sua comparsa possa preludere alla miseria del morbo di Alzheimer. 
E sono qui, al tavolino di un bar dell’aeroporto ad aspettare l’ennesimo imbarco. La città, una delle mie mie città, è Catania, e assaporo il misto di fritto, di mare e di carburante che ne costituisce l’odore inconfondibile, inconfondibile più dell’accento cantato dai Siculi.
Non è certo questo il posto dove si sta meglio, ma ci lamentiamo sempre.
La sponda sbagliata del mio Lago, l’opposta di quella che si spinge a levante da cui veniva mio padre.
Verona, sempre indecisa fra lago, montagna e pianura, altra terra di accenti cantati, dove ho iniziato il mio lungo cammino ospedaliero.
Genova, dove l’odore del fumo nasconde quasi sempre quello del mare; Genova da cui partiva qualche illusione d’amore, dove  nasceva qualche amore sbagliato, dove qualche ospedale si credeva poggiasse fondamenta sul mito. Ed era vero.
La terra di Costantino ed Enrico, la Lucania che ha tutto il fascino del sud: gli uomini, i profumi, i paesaggi, gli orizzonti e nessuno degli insopportabili difetti del Meridione d’Italia.
Micropiede è uno smartphone; emetti strani suoni che io non gli ho insegnato e mi annuncia che è arrivata l’ora di mettermi in coda per salire al gelido nord.

Corri a jettari lu
Corri a jettari lu
Suspiru a mari
 
Oi riturnella
Corri a jettari lu suspiru a mari
 

Pe’ vìdiri se mi rišpunna
Pe’ vìdiri se mi rišpunna
Lu mio beni
Oi riturnella
Pe’ vìdiri se mi rišpunna lu mio beni
 

(antico canto calabrese)

1 commento:

  1. http://w-cody.blogspot.it/2014/03/carlo-gaudiano-il-popolo-materano-tra.html

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